lunedì 27 Novembre 2017

Terrorismo, a Milano Forum mondiale sulla prevenzione


“L’estremismo violento, il terrorismo, il radicalismo religioso costituiscono dei pericoli reali per le nostre società non solo per quanto riguarda le conseguenze materiali di certi atti, ma anche per quelle politiche perché sono in grado di indurre modificazioni profonde nelle opinioni pubbliche, di suscitare ondate di opportunismo in alcune forze politiche che sfruttano gli avvenimenti per capitalizzare consenso su linee politiche forse altrettanto radicali di quelle dei terroristi”. Lo ha detto Pia Locatelli intervenendo a Milano al Forum parlamentare mondiale sulla prevenzione dell’estremismo violento e delle atrocità di massa. Alla conferenza hanno prenso parte 150 parlamentari da 60 paesi del mondo che aderiscono al Parliamentarians for global action Pga e impegnati per la promozione dei diritti umani e dei valori dello stato di diritto,

“Siamo sul filo del rasoio perché ospitiamo e conviviamo con persone di etnie, religioni e culture diverse e, a meno di non immaginare la creazione di ghetti giganteschi per decine di milioni di individui, dobbiamo inventare, percorrere, sperimentare ogni possibile forma di integrazione. L’alternativa, quella dell’odio esplicito e diffuso che qualche forza politica propone, non può che aggravare enormemente e allargare a dismisura le dimensioni del problema. Ma noi dobbiamo percorrere la strada della convivenza di diversi nel più rigoroso rispetto di leggi e regole, ed insieme agire per il contrasto al radicalismo e al fondamentalismo”.

Leggi di seguito il testo dell’intervento

Non c’è nessun luogo del pianeta che possa dirsi immune dalla piaga dell’estremismo violento, del terrorismo, della violenza politica o religiosa.

Cambiano gli strumenti, i modi della violenza e del portare la morte così come le motivazioni, e gli ambiti in cui il fenomeno si esplica, ma una cosa è certa, esso è coevo alla nascita della società ed è presente e diffuso ovunque e in tutte le epoche storiche.

Pensiamo all’Europa, la “civilissima” Europa degli ultimi decenni dove abbiamo avuto soprattutto episodi di terrorismo di matrice politica dall’Eta all’Ira, dalle Brigate Rosse alla Rote Arme Fraktion, ma anche episodi meno facilmente comprensibili o del tutto oscuri come quelli del Belgio con le stragi del Brabante, gli attentati dinamitardi in Italia o gli assassinii di singoli esponenti politici come Olof Palme, Anna Lindh, Jo Cox, a volte nemmeno rivendicati né davvero compresi.

Fuori dai confini del Vecchio Continente l’elenco degli orrori commessi e giustificati per ragioni politiche, sociali e religiose è assai più lungo e sanguinoso.

Ricordo solo i più recenti, la lunga teoria degli attentati dinamitardi in Iraq e in Afghanistan, le azioni atroci di Al-Qaeda e Al Shabaa, le persecuzioni dei Rohingya con milioni di profughi,… sono solo alcuni, ma la lista è davvero lunghissima.

E poi le stragi di Boko Haram, e il sequestro delle quasi 300 ragazze di Chibok , per la cui liberazione abbiamo contribuito alla campagna iternazionale “bring back our girls”. Ricordiamo anche le atroci sofferenze degli e delle Yazide. Nel Comitato Diritti Umani della Camera dei Deputati, che presiedo dalla seconda metà della legislatura, abbiamo organizzato diverse audizioni di testimoni di violazioni di diritti umani; tra questi Nadia Murad, una giovane yazida, una delle poche donne che sono riuscite a fuggire da una condizione di schiavitù sessuale a cui erano state costrette da Daesh, che le aveva trasformate in prede di guerra per i combattenti del Califfato durante la campagna militare in Siria. Oggi Nadia Murad, a cui è stato conferito dal Parlamento europeo il Premio Sacharov, è una testimone delle violazioni dei diritti umani compiuti dal Califfato; la sua infaticabile attività  ha portato all’attenzione internazionale le sue atroci sofferenze e quelle della popolazione yazida. A seguito della sua audizione abbiamo chiesto che il Governo si impegni a promuovere nelle competenti sedi internazionali, ogni iniziativa volta al formale riconoscimento del genocidio yazida e ad assicurare i responsabili alla giurisdizione della Corte Penale Internazionale.

L’estremismo violento e sanguinario, le atrocità di massa, il terrorismo sono sempre stati un modo per condurre le guerre, risolvere conflitti, quando i “canoni tradizionali” della violenza organizzata in eserciti venivano ritenuti insufficienti o non praticabili; la stessa definizione di terrorista ha sempre avuto una declinazione variabile a seconda dei punti di vista: erano terroristi i partigiani per le SS ed erano terroristici i bombardamenti con le bombe incendiarie sulla popolazione civile alla fine della seconda guerra mondiale.

Ai giorni nostri poi, la cronaca ci mostra che sono singoli, o gruppi più o meno grandi di individui che commettono violenze inaudite alcune volte solo come testimonianza della loro odio, come avviene per gli attentati dell’Isis in Europa, che non hanno neppure in forma larvata la più lontana speranza di modificare il corso della storia a loro favore.

L’estremismo violento, il terrorismo, il radicalismo religioso costituiscono dei pericoli reali per le nostre società non solo per quanto riguarda le conseguenze materiali di certi atti, ma anche per quelle politiche perché sono in grado di indurre modificazioni profonde nelle opinioni pubbliche, di suscitare ondate di opportunismo in alcune forze politiche che sfruttano gli avvenimenti per capitalizzare consenso su linee politiche forse altrettanto radicali di quelle dei terroristi.

Tralascio la risposta delle Istituzioni sul piano della legalità e della sicurezza ma sottolineo la necessità della comprensione profonda dell’origine del fenomeno e della prevenzione con politiche attive mirate a combatterlo alla radice.

Senza scadere nel giustificazionismo, dobbiamo ricordare gli errori commessi, ad esempio, negli interventi in alcune situazioni di crisi come è avvenuto per la guerra in Iraq o nella caduta del colonnello Gheddafi con l’innesco di crisi che poi sono risultate incontrollabili.

Lo stesso estremismo religioso, solo per fermarci agli ambiti geografici a noi più vicini, nello scontro tra sunniti e sciiti non ha certamente solo fondamenti di disputa teologica e così come è avvenuto in Europa nelle guerre e nelle stragi tra cattolici e protestanti, ha solide motivazioni sociali, anche se camuffate e disconosciute o anche conflitti di potere su scala regionale come nel caso dell’Iran sciita e delle monarchie sunnite del Golfo.

La vera differenza forse tra i tempi moderni e il passato più o meno recente è nell’impatto devastante, essenziale, dei mezzi di comunicazione che diffondendo e amplificando, soprattutto con le immagini, gli effetti del terrorismo, paradossalmente lo rafforza e i mezzi di comunicazione di massa ne diventano involontariamente i principali alleati.

Non possiamo certamente invocare un black out dell’informazione, ma una più diffusa consapevolezza ed un maggiore senso di responsabilità certamente aiuterebbero l’opinione pubblica a non subire passivamente gli effetti di quegli atti di violenza sanguinaria.

Ancor più necessario, direi fondamentale è un analogo senso di consapevolezza e responsabilità delle forze politiche, oltre che delle istituzioni, perché ogni violazione del diritto internazionale, ogni discriminazione, emarginazione sociale e culturale, ogni misura oppressiva ingiustificata, rende più forte il nemico, favorisce la radicalizzazione e il reclutamento.

Siamo sul filo del rasoio perché ospitiamo e conviviamo con persone di etnie, religioni e culture diverse e, a meno di non immaginare la creazione di ghetti giganteschi per decine di milioni di individui, dobbiamo inventare, percorrere, sperimentare ogni possibile forma di integrazione. L’alternativa, quella dell’odio esplicito e diffuso che qualche forza politica propone, non può che aggravare enormemente e allargare a dismisura le dimensioni del problema.

Ma noi dobbiamo percorrere la strada della convivenza di diversi nel più rigoroso rispetto di leggi e regole, ed insieme agire per il contrasto al radicalismo e al fondamentalismo.

Quello del contrasto al radicalismo e al fondamentalismo è uno dei temi che abbiamo affrontato come intergruppo donne della Camera dei Deputati. L’intergruppo donne è costituito da un centinaio di colleghe che vogliono segnare con politiche di genere la legislatura, che per la prima volte vede una robusta presenza femminile (il 31%). Lo abbiamo fatto con una iniziativa del gennaio 2016, in coincidenza con l’approvazione da parte della Camera dei Deputati del decreto contro il terrorismo.

Con il seminario “Le donne contro Daesh – Il contrasto al radicalismo e al fondamentalismo” abbiamo voluto riflettere, capire e pensare a possibili azioni da intraprendere contro il terrorismo, perché si parla di prevenzione ma è molto difficile immaginare azioni vere.

Protagoniste del seminario sono state le madri di due giovani “occidentali” che hanno perso la vita dopo essere stati reclutati per combattere con Daesh. Saliha Ben Alì, fondatrice del ramo belga dell’Ong “Save-Society against violent extremism”, e Christianne Boudreau, canadese, coordinatrice dell’Ong “Mothers for life” . Queste donne ci hanno raccontato come i loro figli, nati e cresciuti in occidente, in brevissimo tempo, si sono, o forse sono stati radicalizzati e arruolati nelle file dell’ISIS. Due testimonianze di madri che hanno reagito ad una comune tragedia: Saliha ha messo a disposizione le sue competenze professionali di assistente sociale per contrastare Daesh. Christianne è partita dalla sua esperienza drammatica e dallo stigma di essere madre di un terrorista (non potrebbe esserci accusa più crudele di questa) per costituire un’associazione che mette in comunicazione le madri che hanno vissuto la sua stessa esperienza. Entrambe sono partite dal livello locale per costruire un’azione transnazionale, portata avanti (lo ha detto il professor Daniel Koehler) da una della rete che riguarda undici Paesi, fra cui l’Italia. Ma, è questa è stata la sollecitazione di un altro professore ( Lasse Lindekilde),   se non c’è il sistema politico che sostiene il lavoro , il modello non funziona.

Sono intervenuti poi Lasse Lindekilde, docente dell’Università di Aarhus, la cittadina danese che, tra le prime al mondo, ha avviato un programma di reinserimento sociale per i foreign fighters di ritorno, e Daniel Koehler, direttore “Girds” (German Institute on radicalization and de-radicalization studies), uno dei massimi esperti del fenomeno della radicalizzazione. Tra i relatori, anche Edith Schlaffer, direttrice esecutiva della rete “Women without borders/Save”, fondatrice di diverse Ong che coinvolgono le donne dei Paesi del mondo arabo e musulmano nella lotta al fondamentalismo.

Da quelle testimonianze e dagli interventi di esperti in materia abbiamo appreso che il problema esiste anche nel nostro Paese. Da qui la necessità di svolgere azioni informative e preventive soprattutto nelle scuole.

Alla Camera nel luglio scorso abbiamo approvato una proposta di legge sulla prevenzione, sui segnali da “captare” prima che divenga troppo tardi e prevede misure e programmi per prevenire fenomeni di adesione alla radicalizzazione; ma vuole anche agire sul recupero in termini di integrazione sociale, culturale, lavorativa, di soggetti disponibili a interrompere un percorso di annichilimento. Il tutto nel rispetto dei diritti, a cominciare dalla professione di fede, e delle libertà individuali e garantendo la sicurezza dei cittadini. Coniugare diritti e doveri in questo campo non è cosa facile, per questo serve il supporto di soggetti diversi a cominciare dalle famiglie, dalle scuole e dal web.

Perché, o si lavora insieme, o la nostra azione sarà inefficaci

Infine un’ultima nota che non posso non fare nella mia veste di presdiente del Comitato Diritti umani della Camera. Si riferisce ad una notizia di pochi giorni fa, quella della condanna del tribunale dell’Aja di Ratko Mladic all’ ergastolo per genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra. Una condanna giusta per un criminale che ha potuto rimanere latitante per 16 anni grazie a protezioni nazionali ed internazionali. La guerra nella ex Yugoslavia, una guerra della quale potevamo “sentire il rombo” tale era la vicinanza geografica, ci ha resi più consapevole che ancor oggi le guerre sono possibili, ma la condanna del macellaio di Srebrenica ci ha dato un messaggio forte di speranza : la cultura dell’impunità non ha prevalso.